
Da Facebook a Instagram e Tik Tok, sono davvero innumerevoli i modi inventati per cercare di prolungare la presenza di una persona defunta. Con AI e realtà virtuale, addirittura, si può tornare anche a parlarci. Ma tutto questo è eticamente accettabile? E quali rischi comporta?
Un'indagine di Ruggiero Corcella
Passeggiando lungo i corridoi dei Musei Vaticani e di quelli Capitolini o in qualsiasi altro museo, grande o piccolo, dove sono conservate vestigia romane, vi sarà certamente capitato di trovare un corridoio o un’ala piena di cippi funerari.
Mi hanno sempre incuriosito e colpito le iscrizioni su quelle lapidi, spesso realizzate nella forma di una casa. Raccontano particolari dei defunti, ne esaltano alcuni aspetti del carattere e della condotta. Frasi struggenti, tante volte, fanno quasi prendere vita alle parole incise sulla pietra. L’immaginazione, allora, trasporta in un tempo altro. E tu “vedi” quelle persone, “senti” il loro dolore, “partecipi” al loro lutto.
Da che mondo è mondo, l’essere umano di fronte alla morte di un proprio caro cerca di prolungarne la presenza, vuole tenerlo ancora con sé, condividerne la perdita con tutti quelli che lo hanno amato o anche semplicemente conosciuto. E ne proietta l’immagine con qualsiasi mezzo.
I tempi cambiano, ma quel desiderio ancestrale resta immutato, scolpito anche quello ma nel nostro Dna. Non dovrebbe stupire, allora, ogni tentativo di esaudirlo anche oggi, con i nuovi mezzi che la tecnologia mette a disposizione.
Ieri erano le lapidi. Oggi sono i social: Facebook, Instagram, Tik Tok. Oppure l’ormai onnipresente intelligenza artificiale. Davide Sisto, filosofo e tanatologo, ha affrontato l’argomento nel podcast «L’unica cosa certa», una serie prodotta da Chora Media in collaborazione con Vidas.
Vale davvero la pena di ascoltarle, le quattro puntate disponibili sia sul sito di Vidas sia su tutte le principali piattaforme di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast, Spreaker e Deezer.
Ne riporto il testo, come spunto di riflessione.
«I social media oggi hanno intercettato in modo molto significativo il lutto, l’elaborazione del lutto, anche il racconto della malattia – dice Sisto -. Questo perché viviamo un’epoca decisamente particolare, nel senso che ormai, chi più chi meno, tende a prolungare la propria identità attraverso gli schermi, quindi a utilizzare i social media in maniera a volte anche come. Si va riempiendo i social con parole scritte e immagini fotografiche, video che riguardano la propria vita. E questo ovviamente diventa da un certo punto di vista problematico e dall’altro punto di vista una risorsa quando ha luogo, la morte. E in questa duplice situazione funziona in questa maniera: che moltissime persone tendono in qualche modo a rifugiarsi sui social. Su tutto quello che i social media hanno in qualche modo accolto della persona deceduta, una delle cose, secondo me, più interessanti, soprattutto per le generazioni meno giovani che utilizzano Facebook, è aprire delle pagine di ricordo della persona defunta, che in qualche modo catalizzano, che conducano le persone che conoscevano il defunto su quella pagina, in modo da condividere dei ricordi, da ampliare la narrazione post morte ».
Hashtag «grief Tok» o « grief journey »
Aggiunge Sisto: «In altri social media, invece, più giovani come Tik Tok, vengono creati degli hashtag come “grief (lutto in inglese) Tok” o “grief journey”, richiami al lutto in cui solitamente la persona che ha patito particolarmente il lutto di un genitore, di un fratello o di un compagno, comincia a creare una forma di narrazione potremmo dire quasi seriale, quasi in stile serie TV, dove ogni video è una specie di sunto tra immagini fotografiche che ricordano la persona defunta, alcune parole particolarmente significative, delle musiche scelte ad hoc che nel corso del tempo tendono in qualche modo a riassumere la storia del defunto e a cercare per coloro che hanno patito appunto il lutto di trovare una via di fuga verso questa narrazione ».
Rifugio o ricatto?
«Mi occupo di questo tema, del rapporto tra le tecnologie digitali e la morte, da ormai una decina d’anni e una delle cose ricorrenti che mi è stata raccontata è che i profili social su appunto Facebook, Instagram, Tik Tok se da una parte rappresentano un rifugio, perché contengono così tanto della persona defunta e quindi aiutano, dall’altra parte rischiano di diventare un ricatto, perché ogni giorno basta collegarsi sul social media e ci si ritrova di fronte a un profilo molto vivo che potrebbe intercettare malamente la necessità di dover andare avanti e quindi comunque di prendere coscienza del fatto che si sta cominciando a vivere in un mondo senza la persona amata e quindi questo profilo può diventare qualche cosa che impedisce una elaborazione del lutto, che può in qualche modo determinare un prolungamento eccessivo delle prime fasi del lutto. Quindi ci si muove molto su questo confine, sul confine del ricordo positivo che mette anche in campo la creatività delle persone perché appunto utilizzano gli strumenti dando un’immagine al proprio lutto. Ma dall’altra parte c’è anche il rischio, diciamo, di non riuscire a superare il trauma perché si rimane collegati al dato vivo della persona defunta. Perché ovviamente la dinamica temporale dei social dall’idea che fondamentalmente la persona sia lì», continua l’esperto.
Fin qui i social. Ma che dire dell’affermarsi di strumenti potentissimi come la realtà virtuale che in accoppiata ad una intelligenza artificiale (AI) è in grado di eliminare – sia pur virtualmente appunto- la barriera fra i vivi e i morti?
Risponde Davide Sisto: «La situazione odierna è particolarmente complessa nel momento in cui entra in gioco l’intelligenza artificiale. L’intelligenza artificiale sta permettendo o cominciando a permettere alle persone non solo più di avere un dialogo con la persona defunta, in cui il dolente interpreta tutte e due le parti. Come è sempre successo: una persona andava sulla tomba del proprio caro, incominciava a parlargli e immaginava la risposta».
Il fenomeno ChatGPT e la VR coreana I met you
«»Oggi l’intelligenza artificiale può in qualche modo interpretare attivamente la risposta del morto e non è un caso che da quando c’è ChatGPT (l’ormai arcinoto “bot” della società statunitense OpenAI, che nel 2023 per la prima volta ha reso disponibile l’AI per un grande pubblico, ndr) una delle maggiori richieste che vengono fatte a ChatGPT è quella di ricreare le caratteristiche dialogiche, il modo di parlare e di descrivere del defunto e quindi di stabilire un dialogo attivo. Qualche anno fa ha fatto molto scalpore in Corea del Sud un documentario che si chiamava “I met you” (Ti ho incontrato, in inglese, ndr) in cui una donna ha incontrato tramite realtà virtuale la riproduzione virtuale della figlia di 6- 7 anni deceduta. E quindi abbiamo visto questo documentario dove tramite un visore di realtà virtuale c’è stato questa specie di dialogo attivo con la bambina morta. E oggi si dice che in Cina, con il corrispettivo di 7 dollari, sia possibile disporre di applicazioni sugli smartphone che permettono di avere un dialogo attivo con i morti».
Alexa ti voglio bene
«Infine, un ultimo esempio per dare un quadro di questa situazione, sicuramente un po’ distopica, Alexa (l’assistente virtuale di Amazon entrata nelle case di migliaia di italiani nel 2019 e che, solo nel primo anno, oltre 7 milioni di volte ha avuto utenti che le hanno detto “ti voglio bene”, ndr) un paio d’anni fa ha dichiarato che con un solo minuto di registrato in grado di riprodurre le voci delle persone hanno fatto vedere come esempio una nonna defunta che raccontava una storia a un bambino, al nipote. Questo ovviamente è molto problematico sotto tanti punti di vista: etico, psicologico, emotivo. Non sono tendenzialmente uno che ti viene a dire che queste cose sono solo negative, perché posso anche vederci una forma di memoria rinnovata, di una memoria nuova che segue il cambiare del tempo e quindi potrebbe anche essere utile o comunque potrebbe essere naturale andare in questa direzione in cui si avrà un ricordo sempre più vivido di coloro che non ci sono più, attraverso un dialogo attivo. Ma questo vale probabilmente per delle persone che sono molto capaci di razionalizzare quello che sta succedendo. Quando un lutto è molto fresco, quando si è molto deboli, fragili, quando non si ha la capacità di razionalizzare quello che si sta facendo ovviamente questo può diventare un ricatto ancora più grande e si rischia che una persona non sappia distinguere l’intelligenza artificiale dalla persona lasciata. E questo diventa una cosa che fondamentalmente non andrebbe utilizzata. Quindi, di nuovo, è una direzione che ci porta verso nuove problematiche che devono in qualche modo spingere tutti coloro che si occupano di elaborazione del lutto che lavorano nel campo a fare attenzione, a coglierne gli aspetti più specifici, per far sì di non rimanerne travolti, come spesso succede quando una persona molto sola si ritrova ad avere uno strumento molto potente che intercetta un momento emotivo molto delicato».