Il fenomeno dello «sharenting» è sempre più diffuso. Ma spesso non ci rendiamo conto degli enormi rischi connessi. Fondazione Maruzza lancia un decalogo per aiutare genitori, operatori e associazioni a capire in che modo agire
Un'indagine di Ruggiero CorcellaFermiamoci un momento a riflettere: perché sempre più genitori condividono online contenuti che riguardano i propri figli? Non solo foto e video, ma perfino ecografie. Cosa si nasconde dietro questo fenomeno ribattezzato «sharenting», sostantivo coniato (guarda un po’) negli Stati Uniti, che mette insieme le due parole inglesi «share» (condividere) e «parenting» (genitorialità)?
Le possibili motivazioni psicososociali
In uno studio pubblicato nel giugno del 2023 su The Journal of Pediatrics da Pietro Ferrara (primo autore, professore di Pediatria all’Università Campus Bio-Medico di Roma e responsabile del Gruppo di studio per i diritti del bambino della SIP) e colleghi, si legge: «Le motivazioni psicosociali del comportamento genitoriale che porta alla divulgazione di informazioni sensibili riguardanti i bambini su Internet sono state oggetto di studi precedenti, che hanno analizzato gli esiti positivi e negativi di questa forma di rituale. L’accesso frequente ai social media, abbinato alla ripetuta gestione delle informazioni pubblicate, è spesso associato a livelli elevati di stress nelle neomamme. In generale, le motivazioni alla base dei comportamenti di condivisione dei genitori sono solitamente positive e non maliziose. I genitori spesso condividono foto e storie dei loro figli con l’intenzione di mostrare affetto e orgoglio per i risultati dei loro figli. In cambio, ricevono supporto e incoraggiamento da familiari e amici nella loro rete familiare, che li aiutano ad attenuare qualsiasi condizione di stress, a promuovere un senso di sicurezza e ad aiutarli a sviluppare e mantenere legami sociali. Lo sharenting è anche associato a vari risultati positivi, tra cui la normalizzazione della genitorialità maschile attraverso la condivisione di esperienze personali di genitorialità o l’aiuto ad altri genitori a migliorare la loro esperienza genitoriale. Tuttavia, la pratica dello sharenting è controversa a causa dei significativi rischi potenziali associati alla condivisione di foto dei bambini e di altre informazioni sensibili online».
Lo sharenting, dunque, è una «forma di rituale» che non ha un retroterra pedagogico o culturale e che è fonte di dubbi sulla sua stessa legittimità: condividere o non condividere? Se sì, come farlo? Quando? Dove?
L’idea di Fondazione Maruzza: Guide per orientarsi
Per cercare di rispondere a questi interrogativi, Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio ETS ha presentato al recente Congresso nazionale della Società italiana delle cure palliative, la prima guida in Italia dedicata alla tutela dell’immagine dei minori con patologie gravi o inguaribili nell’ambito delle cure palliative pediatriche. Il manuale, intitolato «IMA-GO! Condividile con Cura. Manuale per la condivisione consapevole delle immagini dei minori con malattia inguaribile» intende aiutare le famiglie e i professionisti nel prendere decisioni informate e rispettose sulla condivisione di foto e video dei piccoli pazienti.
«Con la pubblicazione di IMA-GO! la Fondazione Maruzza, da sempre impegnata nella promozione delle cure palliative pediatriche – sottolinea la presidente, Silvia Lefebvre D’Ovidio – si conferma pioniere nella tutela dei diritti dei bambini con malattie inguaribili, offrendo strumenti innovativi e concreti per migliorare la qualità della vita dei piccoli pazienti e delle loro famiglie».
Le dimensioni del fenomeno sharenting
Un recente studio europeo riporta che ogni anno i genitori condividono online una media di circa 300 foto e innumerevoli dati sensibili riguardanti i propri figli. Le prime tre destinazioni per queste foto sono Facebook (54%), Instagram (16%) e Twitter (12%) (1). Una recente indagine ha rilevato che i bambini, prima dei due anni, che vivono nei Paesi occidentali, hanno una presenza online di circa l’81% in media, suddivisi per il 92% negli Stati Uniti e per il 73% in Europa. In Australia e in Nuova Zelanda, il 41% dei bambini ha una presenza online dalla nascita. Oltre il 30% delle madri pubblica regolarmente foto dei propri neonati e, grazie alla condivisione, un numero crescente di bambini nasce digitalmente anche prima della nascita naturale. Il fenomeno della pubblicazione di immagini di ecografie, racconti di esperienze personali durante la gravidanza e persino l’attivazione di indirizzi e-mail e profili di social network è in continuo aumento. Negli Stati Uniti, il 34% dei genitori pubblica regolarmente ecografie online, il 13% in Francia e rispettivamente il 14% e il 15% in Italia e in Germania.
Un «post» è per sempre
«Quello che noi postiamo sui social è eterno, ma se ci pensiamo bene non c’è nulla di eterno. L’eternità la riserviamo a questa forma di comunicazione che ha dei risvolti drammaticamente positivi, perché arriva alla periferia e intercetta persone che altrimenti non riusciremo proprio a incontrare, ma ha anche delle ricadute così difficili da gestire, che possono creare veramente dei danni», ha sottolineato Franca Benini, direttrice scientifica di Fondazione Maruzza e responsabile del Centro Regionale Veneto di terapia del dolore e Cure Palliative Pediatriche, Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, Università di Padova
Un «Giano bifronte»
Un «Giano bifronte», il fenomeno dello sharenting. Perché da una parte «abbiamo un’esigenza di normalizzazione sociale della diversità e della disabilità e quindi l’esigenza di mostrare, di non nascondere», come ha ricordato Simona Cacace, docente di Diritto delle nuove tecnologie all’Università degli Studi di Brescia e co-autrice del manuale insieme a Matteo Asti, storico e didatta del cinema presso Hdemia Santa Giulia e Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia. E, dall’altra, il dovere di tutelare i minori soprattutto dai rischi che lo sharenting comporta sulla loro «identità digitale» e quindi sulla corretta formazione della loro personalità. La diffusione non condivisa di immagini rischia inoltre di creare tensioni anche importanti nel rapporto tra genitori e figli.
Tre guide per tre «soggetti» diversi
L’analisi dei due esperti ha portato ad individuare «tre punti caldi che contraddistinguono la condivisione dell’immagine del minore malato rispetto alla condivisione dell’immagine di un bambino che malato non sia: non parliamo soltanto dell’utilizzo da parte dei genitori», ha aggiunto Simona Cacace. «Profondamente coinvolti sono anche gli enti e intendiamo le associazioni e le strutture sanitarie in prima battuta E altresì soprattutto gli operatori sanitari, e guardate che gli operatori sanitari possono condividere l’immagine del paziente anche qui per due motivazioni diverse: una di natura personale, la narrazione della propria storia che coinvolge anche la pratica quotidiana professionale. L’altra, invece, per motivi di natura lavorativa, cioè lo scambio di informazioni con i colleghi magari per una diagnosi la più agevole e la più veloce possibile».
Consigli (molto) pratici
La guida prende in considerazione proprio i diversi approcci e sensibilità, a seconda che ad agire sia uno dei tre soggetti interessati. «Questa guida vuole essere un aiuto per le famiglie, i professionisti e la comunità ed è stata pensata – hanno detto Simona Cacace e Matteo Asti – per aprire una riflessione sul tema e dare consigli pratici con l’obiettivo di aiutare i genitori, caregiver, operatori sanitari ed enti a navigare in situazioni spesso difficili, in cui il desiderio di condividere la propria esperienza si scontra con il rischio di ledere l’identità e i diritti del minore».
Cyberbullismo in agguato
Il fenomeno dello sharenting è oggetto di numerosi studi che mirano a promuovere un uso consapevole e rispettoso della rete. Esistono manuali che forniscono strategie pratiche per proteggere la privacy, la sicurezza e il benessere dei minori. Lo stesso Garante per la protezione dei dati personali ha pubblicato una serie di suggerimenti ai genitori per limitare questo fenomeno. L’Autorità ha anche proposto di estendere a questi casi la particolare tutela assicurata dal Garante sul terreno del cyberbullismo, ovvero di tutte quelle forme di aggressione, molestia e discriminazione realizzate attraverso l’impiego dei nuovi strumenti di comunicazione offerti dallo sviluppo della rete Internet.
Bambini con malattie inguaribili
Tuttavia, quando si tratta di condividere l’immagine di un bambino con malattia inguaribile, le problematiche si fanno ancora più delicate. Gli interrogativi riguardano non solo il rischio di violare la dignità del minore, ma anche l’eventuale conflitto con obiettivi sociali più ampi, come la sensibilizzazione e l’inclusione.
La spettacolarizzazione del dolore
La professoressa Cacace, lo ha spiegato molto chiaramente: «É d’obbligo chiedersi come si sentiranno questi bambini, una volta diventati adolescenti, di fronte alla condivisione delle loro foto, delle loro storie private e di dettagli sulla loro malattia, perché qui si tratta della costruzione di un’identità digitale vincolata profondamente alla loro malattia e non ad altro. E questo a prescindere dal fatto che poi questi bambini davvero potranno rendersene conto, ad un certo punto della loro vita. Ciò potrebbe non accadere perché potrebbero morire prima o perché potrebbero non acquisire mai la capacità necessaria per percepire che questa identità digitale è stata costruita alle loro spalle in qualche modo, ma ciò interessa poco, perché rimane il problema della lesione della dignità e rimane. Il problema, dal punto di vista giuridico, ma anche sociale e mediatico, della spettacolarizzazione del loro dolore».
Campagne di raccolta fondi
Ma lo sharenting pone anche domande (e dubbi) sulle raccolte fondi: esistono e, se sì, quali sono i rischi e quali confini tra legale e l’illegale? Al punto 10 della Guida per i genitori si legge: «Offri garanzie ai donatori se organizzi una raccolta fondi online. Fissa l’obiettivo e il bisogno economico che vuoi raggiungere e rendiconta in modo trasparente le spese sostenute». Ebbene, come ha sottolineato Matteo Asti, «oggi se le piattaforme ci consentono di fare anche con facilità queste raccolte fondi, il vero problema è che queste raccolte possono diventare anche dei boomerang. Alcune volte, infatti, si rivelano mal organizzate, alcune volte addirittura possiamo dire fraudolente. Tutto questo va a detrimento di chi vuole fare seriamente una raccolta fondi perché ne ha realmente bisogno. Quindi prima di tutto dobbiamo chiederci: come possiamo dare delle garanzie ai donatori? L’altra domanda è: quali contenuti mettiamo a disposizione per fare questa raccolta fondi? Sono contenuti che rispettano, come dicevamo prima, la dignità del bambino o sono contenuti che invece in qualche modo riducono il bambino ad uno stereotipo o addirittura lo umiliano pur di migliorare il risultato della raccolta fondi? Questo, quindi, non vuol dire di nuovo che le raccolte fondi non si possono fare, anzi. Si possono fare e i social sono un metodo straordinario. Il problema è quali immagini usiamo. E anche come rispettiamo dei criteri per rendere questa raccolta fondi il più possibile trasparente, soprattutto se non siamo enti, ma se siamo magari appunto dei singoli che la stanno facendo».
Insomma, bisogna andarci davvero con i piedi di piombo, perché anche da un punto di vista legale i rischi sono notevoli. Perché «rispetto all’utilizzo di queste nuove tecnologie, il dato normativo è un pochino meno, diciamo lassista», ha rimarcato la professoressa Cacace. «Il problema capitale della raccolta fondi adesso, a parte il problema della trasparenza e delle modalità e di come e cosa chiediamo e come rendicontiamo, la questione può diventare che ad un certo punto il bambino venga impiegato quasi come se fosse un lavoratore. Questo a prescindere che si tratti o meno di un bambino malato. La presenza della malattia acuisce il problema della dignità. Ed evidenzia, l’assenza di consapevolezza, aumenta la sensazione della strumentalizzazione, ma discorsi molto simili e in maniera molto più ampia li potremmo fare con i bambini sani».