Le cure palliative hanno sempre avuto vita dura. E non solo nel nostro Paese. Nascono negli anni Sessanta, attraverso un movimento che non parte in ambito accademico ma dal basso, nei quartieri emarginati di Londra. Hanno bisogno di figure coraggiose e pionieristiche, come quella di Cicely Saunders, ex assistente sociale e infermiera inglese, poi divenuta medico con lo specifico scopo di portare la medicina su un campo allora poco praticato. Nel 1967 a Sydenham, vicino Londra, fonda il St. Christopher’s Hospice, il primo hospice moderno e da lì il suo esempio si propaga a tutto il Regno Unito e al resto dell’Europa.
Un articolo di commento pubblicato su Jama offre parecchi spunti di riflessione.
«Dal momento che oltre l’85% dei decessi è preceduto da gravi sofferenze, è fondamentale che tutti gli operatori sanitari (medici, infermieri e paramedici) siano formati in cure palliative – afferma l’autore, Eduardo Bruera, del Dipartimento di medicina palliativa, riabilitativa e integrativa, University of Texas , MD Anderson Cancer Center (Usa) – . Attualmente, 56 Paesi riconoscono le cure palliative come specialità; il Regno Unito è stato il primo a farlo, nel 1987».
«Le cure palliative non sono una novità. Si sono evolute negli anni ’60 e ’70 prima di molte altre specialità mediche, come l’oncologia medica, la medicina d’urgenza e la medicina di terapia intensiva – rammenta Bruera -. Sebbene sarebbe inimmaginabile concepire ospedali, centri oncologici o università senza queste 3 specialità, per le cure palliative la strada verso una specializzazione riconosciuta e l’adozione da parte della medicina organizzata è stata molto più difficile, almeno in parte a causa delle sue origini negli hospice comunitari e nei team di cure palliative piuttosto che nei principali centri accademici e della sua attenzione alla cura della persona piuttosto che a questioni biomediche più tradizionali», scrive Bruera.
E aggiunge: «Per molti anni i leader medici sono stati riluttanti ad accettare che gli specialisti in cure palliative potessero aggiungere valore alle cure fornite da oncologi e internisti. Fortunatamente, ora ci sono tanti studi randomizzati controllati che dimostrano che gli specialisti in cure palliative supportati da team interdisciplinari migliorano risultati clinici nei pazienti e nei caregiver, parametri di qualità di fine vita, risultati finanziari e hanno un impatto neutro o positivo sulla sopravvivenza del paziente. Sulla base di queste prove, le principali organizzazioni scientifiche attualmente raccomandano l’accesso universale alle cure palliative per tutti i pazienti con cancro avanzato. Sfortunatamente, la base di prove per l’efficacia delle cure palliative ha richiesto molti anni per svilupparsi a causa del numero molto limitato di programmi accademici di cure palliative, anche tra i centri oncologici designati dal National Cancer Institute degli Stati Uniti con un mandato di ricerca, e un accesso limitato ai finanziamenti federali, filantropici o industriali per questa linea di ricerca».
Ma, sottolinea lo specialista, almeno adesso la domanda non è più: «Abbiamo bisogno di cure palliative?» ma: «Come possiamo renderle possibili?».
Molto resta da fare per diffondere la cultura delle cure palliative. Anche in corsia e nelle accademie. Bruera descrive un quadro gustosissimo dell’evoluzione, in questi ambiti. «Ci sono 4 fasi di sviluppo nell’accettazione di una cultura di cure palliative per ospedali e università: negazione (“Non abbiamo problemi con la sofferenza della persona, quindi non c’è bisogno di insegnare/fare ricerca su questo argomento”), “pallifobia” (paura di potenziali conseguenze negative dall’adozione di cure palliative), “pallilalia” (discussione sulle cure palliative con un investimento minimo o nullo; la fase più pericolosa per il burnout del clinico) e, infine, “palliattivo” (strutture e processi sicuri in atto e risorse adeguate per fornire le cure palliative necessarie ai pazienti) ».
E conclude: «Per coloro che lavorano nel campo delle cure palliative da decenni, la domanda cruciale senza risposta oggi è: con prove chiare e coerenti di miglioramenti nei risultati clinici, nei parametri di qualità e nei risultati finanziari delle cure palliative e ulteriori prove a supporto di interventi accessibili e scalabili, cosa ci vorrà ancora perché dirigenti, assicuratori e autorità di regolamentazione sostengano finalmente i programmi di cure palliative?».
Al netto delle differenze tra i sistemi sanitari (il nostro è universalistico, quello statunitense basato sulle assicurazioni), la stessa domanda poterebbe essere rivolta a ospedali e università in Italia.
Sì, perché i dati sulla formazione in cure palliative fanno riflettere. Con il decreto 909 del 27 maggio 2022, il ministero dell’Università e della Ricerca (Mur) ha per la prima volta istituito la scuola di specializzazione in medicina e cure palliative. Una svolta epocale.
Delle venti sedi candidate a ospitare la scuola a partire dal primo anno (2021-2022), 17 sono state ritenute idonee e 15 (Ancona, Bologna, Brescia, Ferrara, Firenze, Genova, L’Aquila, Milano Statale, Napoli Federico II, Padova, Palermo, Roma Campus Biomedico, Roma Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma La Sapienza, Trieste) hanno attivato il percorso formativo. Sono state bandite 112 borse di studio, ma si sono immatricolati soltanto in 38 (pari al 34%). Nel 2022-2023 la disponibilità di posti è cresciuta, grazie all’avvio delle attività da parte dell’Università di Milano-Bicocca e di quella di Verona.
Ma le immatricolazioni sono state meno dell’anno precedente: 40 su 140 borse (29%). Così tre sedi già attive (Firenze, L’Aquila, Roma Campus Biomedico) non hanno accolto nuovi specializzandi e cinque nel frattempo ritenuti idonei per la formazione in cure palliative (Catanzaro, Chieti-Pescara, Foggia, Napoli Luigi Vanvitelli e Roma Tor Vergata) hanno dovuto rimandare l’inizio dei corsi.
Per l’anno accademico 2023-2024, i posti disponibili nelle varie Scuole di specializzazione in cure palliative sono 172 ma non si sa ancora in quanti siano le immatricolazioni. Un problema di cultura?